Il patriota, il capitano d’impresa, il ribelle Francesco Marati
Il favore di una tiepida serata dell’aprile 1890 alletta una comitiva di oltre venti persone, ospite della gentilizia dimora del dottor Franza. Le finestre della sala da pranzo sono ancora aperte, si affacciano sui poderosi bastioni della città di Gallipoli. Sono quasi tutti giovani, poco più o poco meno che trentenni, ma attorno al tavolo sopra cui si banchetta lautamente spicca un uomo sulla cinquantina, più silenzioso degli altri. E’ seduto a capotavola, baffi ingrigiti oramai, sguardo severissimo, tutti i convenuti lo circondano della massima considerazione. Il fatto è che quell’uomo ha combattuto fianco a fianco con Garibaldi, nel 1860, quindi ancora nel 1866, in Trentino, sempre al servizio del Generale, in nome delle terre irredente. Quell’uomo che tutti rispettano è Matteo Renato Imbriani, deputato della XVII legislatura, retore raffinatissimo, e capo della sinistra radicale.
D’un tratto uno dei giovani, dopo avergli rivolto un rapido cenno, balza in piedi e con il bicchiere in mano urla: «Evviva Aurelio Saffi!». Saffi, il triumviro della Repubblica Romana del 1849, il mazziniano Saffi, è morto. Alla notizia l’Associazione Democratica Radicale di Terra d’Otranto si è subito mobilitata e Imbriani è giunto fino a Gallipoli di proposito, per commemorarne le gesta. Qualche ora prima ha parlato, ha ammonito il popolo prediletto, ed ha infiammato la piazza con la sua retorica. Il ragazzo che ora stringe in mano il bicchiere, insieme agli altri soci dell’Associazione, ha accompagnato l’uomo politico nelle sue diverse tappe. E’ un giovane di robusta corporatura, fiero, fronte alta e scoperta, naso irregolare e baffi pronunciati, ha trentuno anni, ed anche lui, come gli altri, veste alla moda repubblicana, con la cravatta a farfalla. Il suo nome è Francesco Marati.
Francesco non è li per caso. Anche suo padre Niccolò, che assieme alla madre lo ha lasciato alla tenera età di dieci anni, era un mazziniano ed aveva dovuto subire, per questo, gravissime persecuzioni da parte degli sbirri borbonici. Ma soprattutto, Francesco non è lì da solo. Assieme a lui vi sono tre cugini di belle speranze: sono i martanesi Michele, Nicola e Luigi Vitto. I quattro sono affiatatissimi. Un’amicizia profonda li unisce da quando Marati è giunto a Martano, ospite dello zio, quell’avvocato Francesco Scurti che lo aveva assunto in custodia dopo la morte del padre. In seguito il loro legame è cresciuto e si è tinto di una forte connotazione politica. Attorno alla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, studenti a Napoli, hanno conosciuto le teorie positiviste del conterraneo Salvatore Trinchese e rinfocolato, tra libri, circoli, caffé e retrobottega, la fede nella Repubblica.
Anche Michele, come Francesco, ha attinto dal padre Pantaleone, un medico di provincia, la passione politica e la dedizione alla causa di Mazzini. A soli ventidue anni è entrato in Consiglio, dove si è battuto in difesa degli indigenti contro il dazio comunale sulle farine. Sia Francesco che Michele amano attribuirsi dei soprannomi di cui si servono per denunciare, sulle colonne del giornale «Spartaco», il malcostume amministrativo a Martano: il primo si firma “Un Ribelle”, il secondo, addirittura, “Mefistofele”. Si sono già guadagnati una querela per “libello famoso” ma poco importa. Con Luigi, probabilmente, il legame è ancora più profondo. Anche quest’ultimo, come Francesco, è una testa calda. Qualche tempo prima aveva preteso una «riparazione colle armi» da un vecchio consigliere comunale di Martano che aveva osato mettere in dubbio il fondamento delle sue argomentazioni. Più di tutto, però, Luigi e Francesco condividono un legame ancora più stringente e celato. Ambedue infatti hanno aderito, sin da giovanissimi, alla massoneria. Marati ha solo 13 anni quando comincia a frequentare i circoli massonici di Lecce e la Loggia “Mario Pagano”. Le logge sono ancora, in quel tempo, il luogo di trasmissione di una parte consistente della cultura politica della sinistra risorgimentale e repubblicana, strumenti di organizzazione della lotta nelle periferie del Regno, in opposizione ai circuiti moderati e prefettizi. E’ l’appartenenza massonica che fa di Francesco Marati uno dei figli prediletti della tradizione mazziniana di Martano. Nel 1879, infatti, assunse il brevetto massonico del defunto Donato Micali, un altro martanese illustre, per lunghi anni consigliere provinciale e strettissimo collaboratore di Giuseppe Libertini, indiscusso leader dei mazziniani di Terra d’Otranto.
In questa tiepida serata di metà aprile, dunque, negli occhi di Imbriani risplendono questi quattro ragazzi, eredi dell’insegnamento di una generazione, quella dei loro padri, ormai uscita di scena. Quando quel bicchiere si alza al grido di «Evviva Aurelio Saffi!», non esistono più, proprio come il vecchio triumviro, né i Donato Micali, né i Pantaleone Vitto, né i Giuseppe Nicola Marcucci, né gli Achille Andrichi, tutti vecchi interpreti dell’idea mazziniana e fautori delle prime amministrazioni di Martano dopo l’Unità. Di questi uomini, Francesco sarebbe stato testimone coerente per tutta la vita, più che con la nudità delle idee, con l’opera politica e l’intrapresa economica.
Per 34 anni, dal 1889 al 1923, Marati avrebbe fatto ininterrottamente parte del Consiglio comunale di Cutrofiano, sua patria di origine, rivestendo prima la carica di consigliere e, poi, di sindaco. Ma anche a Martano, per lui città elettiva, si impose nella stima incondizionata degli amici e nel timore degli avversari. Esattore delle tasse sin dal 1880 per interessamento dello zio Vincenzo Scurti, “quadrumviro” dell’amministrazione Bosano Joly, entrò presto in conflitto con quel gruppo di uomini tanto da redigere, nel 1890, un’inchiesta sull’andamento della cosa pubblica in Martano. Sostenitore del deputato repubblicano Antonio Vallone, suo amico sin dai tempi della militanza nell’Associazione Democratica Radicale, fece stabilmente parte del partito Corina-Grassi, in opposizione allo schieramento conservatore e cattolico dei Comi, dei Prete e, a partire dalla fine dell’Ottocento, dello stesso amico Michele Vitto, passato in forza al moderatismo in polemica con i toni socialisteggianti del repubblicanesimo leccese e, magari, in vista di una più agevole scalata al Parlamento nazionale che però non arrivò mai.
Francesco sperimentò altri modi per praticare quell’idea di popolo che gli derivava dall’osservanza mazziniana. Fu infatti abile imprenditore e pioniere dell’industria. Con diversi soci, tra cui Giuseppe Chiriatti, Benedetto Sicuro, e lo stesso Luigi Vitto, edificò manifatture per la molitura delle olive, per un mulino, un pastificio, un panificio e, infine, un magazzino per la prima lavorazione del tabacco. In quei locali, attorno a moderni marchingegni azionati dalla forza vapore, si produceva la fatica quotidiana e diligente di centinaia di persone, soprattutto martanesi, tra addetti alle macchine e al trasporto dei prodotti in tutta la provincia, i cosiddetti “traìnieri”. Nel magazzino tabacchi arrivarono a lavorare più di 300 tabacchine. Intelligente fu, da parte sua, l’uso delle fonti energetiche destinate ad azionare questo piccolo e compatto complesso industriale, sorto alle pendici della città. Gli avversari politici non gli consentirono, a più riprese, di utilizzare le acque di falda del fondo “Fiume”, che egli aveva in animo di sfruttare per costruire un acquedotto cittadino al servizio di tutti e trarre da quelle stesse tubazioni la forza per le macchine. Ovviò così con un generatore elettrico, da cui trasse l’energia per l’illuminazione di una lampada, posta sulla ciminiera dello stabilimento, che tutti chiamarono “faro della libertà”. Libertà che il fascismo gli negò risolutamente, togliendogli la dignità di uomo politico e sottoponendolo a pedinamenti, controlli e tentativi di aggressione. Ma il fascismo, proprio per questa tensione di Marati a mettere in pratica i precetti mazziniani con le opere più con le idee, non poteva negargli la facoltà di usare i suoi mezzi per beneficare la popolazione. Non solo attraverso le sue imprese, ma anche per mezzo di un ricovero per indigenti, che egli fece edificare di suo proprio.
Questa sua operosità avrebbe caratterizzato tutta la sua esistenza. Nel senso del dovere, nella totale coerenza e dedizione alle sue idee, nell’ansia del lavoro, Francesco Marati moriva il 4 maggio 1940, a ottantadue anni, a pochi passi soltanto da quella grande idea chiamata Repubblica.
Antonio Bonatesta
Ho letto con grande interesse questo stralcio di storia martanese. Io, che vivo all’estero ho avuto anche l’immenso piacere di visitare i storici stabilimenti Marati, o almeno quelli ancora accessibili alla esperta guida di Francesco Marati, il quale mi diede la possibilità di rivivere vecchi tempi a me conosciuti solo tramite racconti di mio padre e ricordi di mio nonno, entrambi impiegati presso il pastificio negli anni cinquanta. Mi rattrista però vedere il complesso storico, ovviamente di un certo valore culturale e social-economico, abbandonato a se stesso senza nessun cenno di restaurazione o di uso per altri progetti. Spero che prima o poi qualcuno se ne accorgerà di quanta storia andrebbe salvata. E se qualcuno avesse vecchie foto del pastificio in piena funzione – sono interessato a vederle.