Martano al tempo della crisi dell’olivo
Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, la coltivazione dell’olivo nella provincia di Lecce entrava in una fase di profonda crisi. Già provata dalla diminuzione del prezzo dell’olio, causata dall’introduzione sui mercati dei più concorrenziali olii di semi, l’olivicoltura di Terra d’Otranto doveva fronteggiare in questi anni le conseguenze di una drastica contrazione della produttività, provocata prevalentemente dagli attacchi di malattie crittogamiche e da continue avversità climatiche. I resoconti quadrimestrali della Regia Camera di Commercio e Agricoltura di Lecce, redatti negli anni a cavallo tra i due secoli, riportavano puntualmente l’impatto che nebbie, venti di scirocco e «piogge torrenziali» avevano su raccolti oleari già scarsi. M
a più di tutto, erano parassiti dell’olivo come la “brusca”, l'”occhio di pavone”, la “fumaggine”, la “mosca olearia” e la “bombacella” a sconvolgere il ciclo vegetativo della pianta, rendendola sterile e impendendole di fruttificare. Particolarmente violenta sarebbe stata la diffusione della brusca dell’olivo che, iniziata nel 1894, si sarebbe protratta per circa un decennio – raggiungendo livelli di straordinaria recrudescenza nel biennio 1898-99 e negli ultimi mesi del 1901 e del 1902 – per poi scomparire nel 1905.
Questi attacchi colpivano in modo particolarmente violento l'”ogliarola”, una varietà dell’olivo assai diffusa nell’area nord-orientale della provincia, vale a dire «quella dei comuni siti a sud-est di Lecce, ad oriente della ferrovia Lecce-Zollino ed a nord di quella Zollino-Otranto», comprendente i comuni di Lecce, Cavallino, Lizzanello, Vernole, Castrì, Caprarica, Calimera, Melendugno, Martano e Carpignano. A differenza dell’altra varietà, la cosiddetta “cellina” o “nardò”, l’ogliarola era infatti più produttiva ma meno resistente agli agenti patogeni (Presutti 1909).
Ricompreso nella plaga dell’ogliarola, Martano avrebbe dunque risentito gravemente della crisi dell’olivo. Ancora nel 1909, incaricato dalla commissione censuaria comunale di formulare le risposte a un questionario per la stima catastale, l’agronomo Giuseppe Elia sosteneva che a Martano l’olivo «non rende[va] più con la costanza biennale con cui rendeva una volta. Attualmente – continuava Elia – per ogni annata di carica si devono calcolare da 5 a 6 anni di mancanza di prodotto quasi assoluto, senza dire che l’annata di carica attuale non corrisponde che alla metà dell’annata di carica antica» (Elia 1909).
La sterilità degli olivi era tanto più grave quanto più si consideri la centralità che questa coltura aveva assunto nel paesaggio agrario di Martano. Per estensione e per produttività, l’oliveto rappresentava la seconda coltura maggiormente praticata, dopo il seminativo e davanti al ficheto, al seminativo arborato, al frutteto, al vigneto e al pascolo. Se il seminativo era «sparso in tutto il territorio», l’oliveto era invece concentrato nella porzione nord-orientale dell’agro di Martano, lungo la via per Borgagne e in prossimità delle contrade “Guidini” e “Malopera”. L’assetto proprietario dell’oliveto era di tipo diffuso, caratterizzato dall’assenza del latifondo, da appezzamenti poco estesi e a basso reddito, e dalla prevalenza del contratto “ad economia”. Questo significava che i proprietari gestivano direttamente gli oliveti rinunciando a darli in fitto e facendo largo uso della manodopera salariata per le operazioni di raccolta e di mondatura. Allo stesso tempo, frazionamento e prevalenza della piccola proprietà significavano anche scarsissima disponibilità di capitali da mettere a disposizione dei processi di trasformazione nelle campagne.
Agli oliveti erano poi collegate le manifatture olearie della città. Nella seconda metà degli anni Settanta dell’Ottocento, Martano era arrivato a contare 19 trappeti, un numero considerevole che lo collocava al terzo posto tra i 43 comuni del circondario di Lecce ma che non aveva fornito l’occasione per l’ammodernamento delle pratiche di produzione: in città i trappeti erano tutti di tipo tradizionale o “ipogeo”, non esistevano opifici a vapore per la lavorazione delle olive e assai scarso era l’uso di macchinari (Mastrolia 1999).
Le conseguenze della crisi dell’olivicoltura sulla debole struttura agraria e produttiva di Martano sarebbero state profondissime.
I proprietari si trovavano dinanzi alla scelta se continuare a sopportare le perdite economiche imposte dalla sterilità dei loro alberi o sostituire l’olivo con colture più redditizie. In realtà, già pochi anni dopo l’inizio della crisi, si era avviato un processo di contrazione della superficie adibita a oliveto e, dal momento che a quell’epoca non esistevano già più boschi nella provincia di Lecce, «tutto il carbone, che vi si produce[va], [era] di olivo». Nel 1909, Enrico Presutti, compilatore dell’inchiesta agraria sulle condizioni dei contadini meridionali, visitando queste contrade annotava: «è uno spettacolo doloroso vedere la distruzione di questi boschi folti di olivi; il vecchio albero secolare, dal tronco poderoso, viene abbattuto con piccole mine che si fanno scoppiare la sera all’imbrunire. Si comprende come i proprietari non sanno decidersi al doloroso sacrificio; pentiti sempre di non averlo fatto 10 anni prima, e spesso indecisi a compierlo oggi» (Presutti 1909). Non tutti i proprietari, tuttavia, riuscivano a prendere una decisione. A Martano, nonostante «da tutti» si sentisse ripetere «che l’oliveto, una volta fattore quasi unico di vera ricchezza del territorio», era invece divenuto «causa di grande dissesto finanziario tanto nella classe dei proprietari, quanto in quella dei contadini», in molti esitavano a distruggere una coltura improduttiva «per cercare di sostituirla con altra di maggiore e più sicuro reddito». Come sottolineava lo stesso Elia, «la speranza che torn[assero] annate ubertose», assieme all’«attaccamento a quell’albero che [aveva fatto] ricchi i nostri avi sicché li ritennero quasi in concetto di sacro, tratten[eva] la maggior parte dei proprietari dall’abbatterlo». Vi era poi un’altra ragione «più potente forse», che contribuiva «a che l’oliveto non [fosse] divelto», e consisteva nel fatto che nel territorio di Martano esso era generalmente coltivato su terreni rocciosi e poco profondi, poveri di elementi nutritivi. Abbatterlo, significava allora sostituirlo non con colture erbacee, di pronto reddito, ma con altre piante arboree adatte a quei terreni, come ad esempio la vite. Tuttavia, «per eseguire tale trasformazione [sarebbe occorso] spirito di iniziativa e capitali da investire nella nuova coltura e – concludeva laconicamente Elia – allo stato attuale manca l’una e l’altra» (Elia 1909).
In mancanza di investimenti per l’orientamento produttivo delle campagne, esistevano dunque poche alternative: i piccoli e medi proprietari, soprattutto contadini, erano costretti a vendere agli agrari, mentre questi ultimi per contenere le perdite stabilivano di vietare i lavori di zappatura, raccolta e mondatura negli oliveti. Ciò che ne derivava era dunque l’innesco di profondi processi di accentramento nella proprietà della terra, unitamente a gravi ripercussioni di ordine sociale: creazione di nuove fasce di proletariato, disoccupazione e miseria. I salari scendevano a livelli irrisori – 50 o 60 centesimi al giorno – e le classi popolari non trovavano altro riparo che la carità e la retorica paternalista delle classi dirigenti.
Tumulti, agitazioni, violenze e repressioni seguirono di conseguenza. Già nella primavera del 1898, diverse proteste erano scoppiate nella provincia di Lecce. A Martano, nel marzo 1898, un poderoso e spontaneo corteo di braccianti si era portato dinanzi al palazzo comunale per reclamare lavoro e sciogliersi solo dietro la promessa di appaltare ai disoccupati i lavori di sistemazione della via per Corigliano. In quelle giornate, la stampa di orientamento liberaldemocratico, imbeccata dai corrispondenti sul luogo, riportava: «Voi, martanesi, dovete ricordare nella vostra ora chi voltò le spalle ai vostri bisogni, e bollare col marchio di infamia chi non s’associò al lutto delle vostre case e negò un generoso soccorso. Furono giorni di dolore e di angustie che attraversaste quelli dell’aprile del ’98; e voi, lo so, non foste sconoscenti a chi anticipò i mezzi per portare la pace nelle vostre desolate famiglie e ridonare il sorriso alle vostre donne e ai vostri figlioli» («L’Elettore» 1899).
Nella primavera del 1902, dopo uno degli inverni di più acuta recrudescenza della brusca, la condizione di miseria dei contadini martanesi era gravissima. Il 1 aprile, un corteo di circa cento braccianti, esasperati dal reiterato rifiuto opposto dai proprietari alla richiesta di lavoro, si diresse verso la casa del sindaco Vito Corina e, ingrossato da molte donne e bambini, prese a tumultuare nei pressi del cortile. I carabinieri, intervenuti prontamente, si fecero carico di mediare tra i manifestanti e il sindaco, barricato in casa. Si decise così di predisporre la formazione di gruppi di cinque contadini, per favorirne l’ingaggio sulla base di una lista di proprietari disponibili a offrire lavoro nei campi. Il ritardo con cui si sarebbe provveduto alla formazione della lista contribuì a esacerbare gli animi tanto che, ben presto, l’esasperazione si risolse in una fitta sassaiola contro il palazzo del sindaco e in alcune finestre rotte. I carabinieri, colti di sorpresa nonostante fossero a presidio dell’assembramento da circa due ore, caricarono il corteo senza eseguire i rituali tre squilli di tromba.
Una volta dispersi i manifestanti, le autorità di pubblica sicurezza decisero di non provvedere immediatamente all’arresto dei responsabili del lancio di sassi, al fine di non provocare la popolazione. Il giorno successivo, 13 contadini vennero portati in caserma. Tre di loro, Ippazio Greco, Luigi Bovino e Filomena Colella vennero arrestati; gli altri, tra cui i fratelli Leonardo e Salvatore Stella, Domenico e Antonio Stella, Salvatore Prete, Luigi Chiriatti, Domenico Callisto, Oronzo Perrino e Leonardo Tarantini furono denunciati per violenza e resistenza alle autorità. In quell’occasione, era stato segnalato anche un venticinquenne, Cosimo Stella, descritto come «uno dei più riottosi e inobbedienti ad allontanarsi dall’assembramento […] che in quel mattino si copriva con un berretto di militare di artiglieria». Due anni più tardi, nel 1904, proprio Cosimo Stella si sarebbe posto alla guida della prima Lega di miglioramento di Martano, costituita con il sostegno e l’opera di alcuni dirigenti anarchico sindacalisti: il modenese Giuseppe Prampolini e il galatinese Carlo Mauro.
Antonio Bonatesta
Università del Salento
Fonti: L’elezione di domenica, «L’Elettore», 1899; Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nella Sicilia, vol. III, Puglie. Relazione del delegato tecnico prof. E. Presutti, Roma, Tipografia Nazionale di Giovanni Bertero, 1909; G. Elia, Risposte al Questionario per la raccolta di dati ed elementi di stima catastale, 1909; A. L. Denitto, F. Grassi, C. Pasimeni, Mezzogiorno e crisi di fine secolo. Capitalismo e movimento contadino, Lecce, Milella, 1978; F. Mastrolia, Agricoltura, innovazione e imprenditorialità in Terra d’Otranto nell’Ottocento, Napoli 1999.
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